Dicembre 9, 2024

Il terzo tempo

"When the seagulls follow the trawler, it is because they think sardines will be thrown into the sea"

”Aver tolto la mia famiglia dalla povertà vale più di ogni titolo” – La nostra intervista a Felipe Sodinha

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Siamo felicissimi di poter portare un’intervista speciale, ad un calciatore, anzi, ad una persona davvero unica: Felipe Sodinha. La sua storia ha dell’incredibile: cresciuto nelle favelas, in estrema povertà, è arrivato addirittura a calcare i campi della Serie B con la maglia del Brescia. Il calcio gli ha dato tutto, permettendogli di togliere la famiglia dall’indigenza e di realizzare il suo sogno di giocare in Europa. Oggi, dopo aver sconfitto la dipendenza dall’alcool che gli ha macchiato la carriera, è all’Atletico Offlaga, in Prima Categoria, e vorrebbe continuare a praticare questo sport che tanto gli ha regalato fino ai 50 anni. 

Ci teniamo, pertanto, a ringraziare Felipe per la meravigliosa disponibilità e la società per averci permesso di realizzare questa iniziativa. 

“Come sei cresciuto nelle favelas?” 

“Io sono nato in una favela e ho vissuto lì più o meno fino ai miei 15-16 anni. Lì pensi solo al divertimento e a giocare in strada 24 ore, finché la tua mamma non ti chiama per andare a mangiare. E ti dico: è la cosa che ti rende più felice al mondo. Ovviamente, in quel contesto ci sono tanti problemi, ma magari tu non te ne accorgi, perché appunto pensi solamente a giocare a calcio. Ho conosciuto tantissime persone – tanti amici miei – che sicuramente erano più forti di me, ma non hanno compiuto il sacrificio che invece io ho compiuto durante la mia infanzia, per arrivare ad un obiettivo, ad un sogno. Loro hanno scelto strade diverse, magari quella più facile, io, invece, ero molto più determinato verso il traguardo che volevo raggiungere. La mia famiglia mi trasmetteva l’educazione: mi diceva di non rubare e di non prendere le cose che non erano mie. Con questi insegnamenti sono riuscito, piano piano, ad arrivare dove sono arrivato. Io ho iniziato a 4 anni a giocare a “calcio a 5”: ogni tanto cambiavo squadra e vincevo sempre i campionati importanti per quell’età. Ho vinto tanti trofei di ‘migliore giocatore del torneo’ da bambino e, ad un certo punto, sono passato al “calcio ad 11”. Mio padre mi aveva consigliato di provarci, perché avrei potuto fare una carriera diversa, provando a realizzare il mio sogno di andare in Europa e diventare calciatore”. 

“Come hai vissuto il passaggio all’Udinese? Quanto è stato importante Giampaolo Pozzo?” 

“Pozzo aveva visto un mio video e si era innamorato di me, prendendomi subito. Sono state importanti le persone in Brasile che gli hanno fatto conoscere il filmato, quando avevo 15-16 anni. Giocando in prima-seconda divisione brasiliana, prendendo comunque pochi soldi: il mio trasferimento in Italia mi ha cambiato la vita. Sono passato dalla povertà ad avere dei soldi, quindi è cambiata la vita di tutta la mia famiglia. Questa è la cosa più importante, perché sono riuscito a togliere i miei parenti dalla favela e a realizzare il sogno di mia mamma e di mio papà: questa è la cosa più importante”. 

“Come hai vissuto il cambio di stile di vita? È vero che quando sei arrivato non sapevi che ad Udine ci fosse freddo?” 

“Immagina un bambino che viene dalla povertà e che non ha niente: né un giubbino, né due paia di scarpe… Poi, non conosci nemmeno il freddo, perché in Brasile si dice che c’è freddo quando ci sono 15-20 gradi. Immagina arrivare ad Udine, a gennaio: facevano -3 o -4 gradi, quindi era molto diverso. Io avevo solo un giubbino, che mi aveva regalato il mio procuratore il giorno prima, un paio di scarpe ed un paio di pantaloni lunghi. Per me, la permanenza in Italia è stata molto difficile: io piangevo tutti i giorni perché volevo tornare a casa, visto che non ce la facevo più, a causa della lingua e del freddo. Inoltre, svegliarmi alle 07:00 del mattino per andare a fare allenamento con la neve era davvero duro. Io abitavo in albergo da solo, non sapevo parlare e non c’era la possibilità che c’è oggi di sentirsi con la propria famiglia in videochiamata. Dovevo, quindi, andare in un tabacchino a prendere una scheda, per poi digitare quaranta numeri per chiamare in Brasile, da un telefono fisso. È stato veramente, ma veramente molto difficile. Però, io, quando piangevo, mettevo la testa nel letto e pensavo: “Porca miseria, questo è quello che ho chiesto io, questo è il mio sogno, il sogno di tutti i bambini in Brasile. Io sono in Serie A adesso, in una squadra importante, e gioco vicino a Di Natale, Iaquinta, Quagliarella, Handanovic, Cuadrado, Asamoah, Pinzi, Obodo, Muntari…”. Erano calciatori che vedevo in televisione e con cui giocavo alla playstation, quindi per me è stata una cosa difficile ma costruttiva, nel senso che mi dicevo: ”Questo è il mio sogno: non posso tornare indietro”. In Brasile prendevo 300 reais al mese – nemmeno 100 euro -, mentre in Italia guadagnavo di più chiaramente: è stato un cambiamento. Poi, sicuramente non ho avuto la struttura che ho oggi. Io adesso ho aperto la mia agenzia di giocatori, quindi ora posso dare ciò che io non ho avuto quando sono venuto qua – qualcuno che possa stare vicino a te, aiutandoti: io ho fatto tutto da solo. Nulla è stato facile, però, grazie a Dio, sono riuscito a proseguire, a continuare, anche facendo tanti sbagli”. 

“A Bari non sei rimasto per molto tempo, ma sei stato allenato da un mister come Antonio Conte. Cosa puoi dirci di quell’esperienza?” 

“A Bari sono stato il primo acquisto di Conte, perché lui mi aveva visto giocare, se non mi ricordo male, in una finale di Primavera, ai tempi dell’Udinese. Mi ha voluto a tutti i costi a Bari; era la mia prima grande esperienza. Lui non era ancora il mister che è adesso, però era già un martello, uno che voleva vincere a tutti i costi, un allenatore fortissimo. Io, lì, in quei sei mesi mi sono trovato veramente bene con tutti quanti, sia in spogliatoio che fuori dal campo. Bari è una città stupenda e sui tifosi non c’è niente da dire. Verso la fine dell’anno, però, è capitato un episodio spiacevole. Mio nonno era morto e allora avevo chiesto di tornare nel mio Paese per Natale e Capodanno. Mi avevano dato il permesso, giustamente, però era un permesso, se non ricordo male, di 10-12 giorni: sarei dovuto ritornare per il 2 gennaio e, alla fine, sono rimasto in Brasile per altri 20 giorni, rientrando, dunque, il 22 gennaio. Quando sono tornato, Conte non mi voleva neanche vedere, quindi, giustamente mi ha messo fuori rosa e da lì sono andato via; sapevo di aver sbagliato. Un mister come lui, che ti fa pedalare, che vuole le cose giuste e precise, sicuramente ha fatto la cosa giusta, mentre io ho sbagliato”. 

“Sei poi passato alla Paganese: come ti sei trovato? Parlaci un po’ di Ezio Capuano”. 

“Alla Paganese mi sono trovato benissimo. Con Eziolino ridevo tutti i giorni, perché è un personaggio, però è molto intelligente. È un allenatore molto valido, che, secondo me, sarebbe potuto arrivare in categorie superiori, però, per il suo modo di essere – lui è uno che dice le cose in faccia agli altri -, ha fatto le categorie minori. A Pagani mi sono trovato veramente bene, a parte le ultime settimane, in cui non mi hanno pagato il giusto e sono scappato”. 

“A Brescia, il primo anno non hai trovato moltissimo spazio, mentre nel secondo sei riuscito a consacrarti in Serie B. Cosa puoi dirci di quella tua avventura?”

“Sono arrivato a Brescia dopo un infortunio grave al ginocchio e mi sono fatto male subito, un’altra volta – due problemi nel giro di sei mesi, dunque – . La società mi ha dato tutto: il presidente è stato come un padre; lo stesso vale per mister Calori, una persona davvero fantastica che mi ha aiutato tanto. Brescia è casa mia e quello che dirò di questa città non sarà sufficiente per descrivere quello che mi ha dato questo club, in particolare Corioni e i tifosi, l’affetto della piazza. Mi sono trovato veramente e bene e abito ancora a Brescia, quindi questa città mi è rimasta nel cuore ed è come se fosse la mia seconda casa”. 

Felipe ai tempi del Brescia

“Hai raccontato più volte di aver avuto problemi con l’alcool a Brescia. Come hai superato questo problema e quanto è stato buio, per te, quel periodo?” 

“Bevevo praticamente tutti i giorni. Non so se fosse per tappare un buco o nascondere una mancanza o una scusa. Non ti so dire un motivo: l’unica cosa che so è che ho smesso di bere grazie a Dio, che ho incontrato nella mia vita – e grazie sicuramente anche a mia moglie e a mia figlia -. Dio mi ha dato una seconda possibilità di vita. Non ho mai fatto male a nessuno, ma solo a me stesso; cammino sempre a testa alta, ovunque io vada, ed è per questo motivo che io posso andare in qualsiasi posto ed essere umile con tutti quanti, rispondendo a tutti, parlando con tutti, essendo una persona normale, come sono sempre stato. Dio mi ha fatto smettere di bere e mi ha dato una vita completa e felice, garantendomi la pace”. 

Un’altra immagine del protagonista della nostra intervista ai tempi della Serie B con il Brescia

“E come ti sei approcciato alla religione? Com’è nato questo tuo forte credo?”

“La mia famiglia è sempre stata molto credente. Anche io credevo, ma non praticavo, non facevo le cose giuste. Quindi, un giorno, dal nulla, passando davanti ad una chiesa, in Brasile, appena conosciuta mia moglie, dal nulla mi è venuta questa voglia di entrare. Una volta dentro, a me e mia moglie è sembrato che il pastore che stava pregando, stesse parlando direttamente con me, ma anche con lei: anche lei viveva in un mondo simile al mio. Siamo entrati insieme in chiesa e, da lì è cambiato tutto”. 

“Come ti sei trovato a Trapani? Com’era il tuo rapporto con Serse Cosmi?” 

“Trapani è una piazza calda, un paese stupendo, dove si mangia bene, dove si vive bene. E i tifosi sono spettacolari. Serse Cosmi, per me, è stato un altro padre, perché mi ha dato tutto: ho un rispetto incredibile verso di lui, una persona veramente fantastica. Mi è dispiaciuto davvero tanto lasciare Trapani in quel modo, ma ho avuto tanti problemi al ginocchio in quel periodo, allenandomi sul campo sintetico. Alla fine ho dovuto smettere di giocare e sono andato via un anno prima della scadenza del contratto – avevo firmato per due stagioni -. Sono stato molto onesto con il direttore e gli ho detto:”Non ce la faccio più: ogni venerdì devo togliere il liquido dal ginocchio”. Alla fine sono stato sincero con me stesso e con tutta la società, dicendo che sarei tornato in Brasile e avrei smesso. È stato molto difficile e triste, però era l’unica cosa che potessi fare, perché non volevo rimanere prendendo soldi senza giocare. Quindi, ho detto:”Se non posso scendere in campo, perché sto qua a prendere il posto di un’altra persona che, magari, merita di giocare e sta bene, a differenza mia?”. Ho deciso di smettere e sono andato via”. 

“All’età di 26 anni hai dunque deciso di smettere e hai intrapreso questa strada con la tua agenzia: parlacene un po’”. 

“Non sono diventato un procuratore: sono diventato un aiutante, nel senso che davo una mano a tante persone praticamente gratuitamente. Oggi ho la mia agenzia, che può dare una struttura ad un giocatore che vuole arrivare in Champions League – quello è il mio obiettivo -. Quando ho smesso, però, ho conosciuto mia moglie. È stato un periodo bello e brutto allo stesso tempo: ho conosciuto lei, ma era triste non poter giocare a 26 anni. Non è facile per uno che ha sempre amato questo sport, non ha mai studiato e non ha mai fatto niente. È stato veramente difficile”. 

“Hai dichiarato di essere orgoglioso di aver tolto dalla povertà la tua famiglia e che questo vale più di ogni titolo”. 

“È la cosa più bella del mondo. Sono orgoglioso di aver potuto aiutare la gente che è sempre stata vicino a me, che ha sempre creduto in me e che mi ha sempre dato una mano – capitava addirittura che mi dessero il riso per farmi mangiare e che loro rinunciassero a un pasto -. Andare dai tuoi genitori e dire: “Mamma, papà: ecco qua la casa, ecco qua la macchina”, vedendo i loro occhi brillare di gioia… c’è poco da descrivere: è una cosa meravigliosa, la cosa più bella al mondo”. 

“Cosa ricordi più volentieri dei tue due anni a Modena? Come ti sei trovato?” 

“Ti posso giurare che Modena, nel periodo in cui sono stato lì, mi ha fatto sentire a casa. Provavo un po’ la stessa sensazione che sentivo a Brescia. Proprio come Brescia, anche Modena mi è rimasta nel cuore quando sono andato via. L’appoggio e l’amore che sentivo dai tifosi quando entravo in campo era speciale. Quella città mi ha abbracciato come un fratello e mi è rimasta veramente nel cuore. Se la società oggi mi chiamasse, tornerei ad occhi chiusi, perché non mi sono trovato bene, ma benissimo”. 

Sodinha in maglia gialloblù

“Oggi sei all’Atletico Offlaga, in prima categoria. Quali obiettivi hai per questa stagione e cosa diresti al Sodinha di tanti anni fa?” 

“‘Sei un coglione’, gli direi. Io ho fatto questa scelta, per la persona che è il mister Marco Gala,che conosco da una vita – era un tifosissimo del Brescia -. Grazie a lui abito ad Offlaga e gioco qui, in una società che ha grandi ambizioni ed un progetto di crescita importante. Non sono verso la fine della mia carriera: voglio giocare in questa categoria fino ai 50 anni. Ho preso questa decisione per rimanere vicino a mia figlia e a mia moglie. Mi alleno di meno, posso andare al campo a piedi; inoltre adesso ho aperto la mia agenzia e avrò più tempo per vedere i miei giocatori. Questi i motivi della mia scelta, nonostante avessi richieste da società di livello più alto. Ho dato più valore alla mia famiglia, con un occhio rivolto verso il mio futuro”. 

Felipe Sodinha continua a coltivare la sua passione ancora oggi

“Cosa possono insegnare i ragazzi delle favelas a noi, che oggi abbiamo tutto?” 

“Io ho sempre detto a tutti i ragazzi con cui parlo – a quelli della vostra età ma anche ai più vecchi -: “Dovete avere l’amore nei confronti del prossimo” perché voi Italiani non avete idea di cosa voglia dire non avere niente da mangiare per una settimana… e per “Non avere niente da mangiare” intendo andare in un campo da calcio e mangiare l’erba per la fame, o, magari, andare in un supermercato e provare a rubare un biscotto. Con l’educazione che mi hanno dato mia mamma e mio papà, però, non sono mai andato a rubare, altrimenti oggi sarei uno dei peggiori trafficanti esistenti. Ho dovuto fare questa scelta e, quindi, dico a voi, che avete tutto:”Date valore alla vita, date valore al prossimo”. Aiutate chi ha bisogno. Magari, quando passiamo con la macchina e vediamo le persone sdraiate per terra, che non hanno niente da mangiare, che non hanno un giubbotto quando c’è freddo… Voi avete tutti due o più giubbotti, più di due o tre paia di scarpe, a casa. Avete cibo, avete tutto, ragazzi. Date valore a queste cose. Voi non sapete cosa sia la fame, cosa sia la povertà, non sapete cosa voglia dire vedere persone morire al vostro fianco. Ci sono veramente tante cose a cui dovete dare valore, però, la cosa più importante, che vi dico con tutto il cuore, è amare il prossimo come voi amate voi stessi”.

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